
Fabio Viola: il gioco è tante cose
È pioniere e guru della gamification, metaverse designer e videogame designer. Sceneggiatore di storie interattive, porta il tema del gioco come cultura nel dibattito italiano ed europeo.
Sono una di quelle persone cresciute con i videogiochi. In questo credo di essere assimilabile ad alcuni di voi, ma a un certo punto ho visto nel videogioco non solo un passatempo, ma anche un mondo creativo, un mondo lavorativo e, soprattutto, un linguaggio con cui raccontare storie.
Giocare è un verbo attivo
In inglese play identifica il gioco, ma anche suonare uno strumento musicale, recitare. È una parola polisemica che significa tante cose, perché il gioco è
tante cose. Eppure, soprattutto nel lessico italiano che è molto ricco, ancora oggi ha dei connotati un po’ negativi: “Smettila di giocare… questo non è un gioco…”. Quanti dei vostri genitori vi dicono di smetterla di giocare? Non dico di stare dieci ore al giorno a giocare. Nessuna cosa in eccesso va bene. Il videogioco va preso con parsimonia come tutto, ma ci insegna tante cose.
Le persone migliori che ho incontrato sono quelle che hanno giocato tanto nella loro vita
Non parlo solo del videogioco. Intendo anche andare in strada, il gioco fisico, il gioco all’aria aperta, il gioco in scatola, lo sport, perché si imparano tante cose giocando: rispettare le regole, perché ogni gioco ha delle regole e bisogna avere fair play; imparare a perdere, gestire la rabbia e la frustrazione quando si perde, perché un atleta che gioca accetta la sconfitta.
Molti giochi hanno bisogno di essere giocati in squadra: bisogna imparare ad amarsi, a conoscersi e a capire l’altro, in modo tale da essere più bravi in quella disciplina.
Dove si gioca poco, c’è poco successo futuro
Nei bambini e nei ragazzi che giocano poco, questo poco è direttamente correlato al loro successo futuro. Tanti studi sono stati fatti sulla popolazione carceraria. Quasi sempre sono storie di deprivazione del gioco: c’è un nesso diretto. Per tanti motivi serve creare tanti parchi giochi, tante occasioni di gioco, quanto più sono difficili le situazioni familiari, quanto più si vive nelle periferie e nelle zone a diversa culturalità.
Voi avete tante opportunità per raccontare una storia
La potete disegnare, potete scrivere libri e avete anche un’altra opzione: utilizzare i videogiochi come strumento che condensa testo, immagini, parti di interazione, parti tecniche e molto altro. Soprattutto il videogioco può essere un modo di concepire la quotidianità: uno spazio politico e sociale.
Ci sono quasi tre miliardi di persone nel mondo che utilizzano i videogiochi.
Sono veramente tanti. Almeno una volta l’anno, tre miliardi di persone su sette giocano. In Italia sono dodici milioni su sessanta milioni. Se tutti insieme giocano un gioco che aiuta la ricerca medica, mentre si gioca in realtà si partecipa a parti della stessa ricerca: una massa enorme di persone alla fine generano molti più risultati rispetto a pochi ricercatori. Ci sono dei giochi incredibili per il morbo di Alzheimer, per la riabilitazione fisica e per i deficit dell’attenzione.
C’è un videogioco che negli Stati Uniti Sea Hero Quest: è prescrivibile come una medicina: mentre si gioca vengono stimolate parti del cervello che aiutano a mantenere l’attenzione verso un personaggio o verso un altro. Ha avuto l’abilitazione medica superando sei anni di test.
I giochi diventano uno spazio per tematiche molto complesse
Tematiche di genere, razziali, identitarie: stanno accadendo tante di queste cose dentro i videogiochi. Spesso arrivano a scuola. Qualcuno di voi, utilizzando Minecraft, avrà visto che è possibile creare luoghi storici, imparare la matematica, la geometria o le lingue.
Assassin’s creed è entrato nelle scuole per l’apprendimento della storia. Sono prodotti che non nascono come educativi ma che lo diventano. Accadono cose molto belle: forme di classe capovolta dove è il docente a imparare dai bambini. Si creano nuove forme di apprendimento basate sul fare.
Conoscete la storia del creatore della serie dei Pokémon?
Satoshi Tajiri è nato in un villaggio piccolissimo. Ha passato i primi vent’anni della sua vita andando nelle foreste in cerca di insetti per collezionarli. Da lì è nata poi l’idea dei Pokémon, che sono andati poi in tutto il mondo, come cartoni animati, fumetti e videogiochi. È una storia incredibile. Tra l’altro è affetto da sindrome di Asperger. Malgrado sia una delle persone più ricche e famose del mondo, esistono solo due interviste.
Nel caso di Pokemon Go, si va in strada, si inquadra la strada e appaiono le creaturine. Per sbloccarne cento bisogna camminare davvero. Per sbloccarle tutte, le persone hanno percorso settanta, ottanta chilometri a piedi, perdendo sette, otto chili. I videogiochi possono essere un incredibile strumento per motivare le persone ad andare in strada. E se qualcuno paga, le fa apparire. Se un museo partecipa a questa pesca comprandole, le paga 12 euro l’una. Durano una mezz’ora, un’ora e attraggono le persone.
In realtà dietro i videogiochi ci sono persone in carne ed ossa
Ci sono anche se sembrano digitali, con delle storie, a volte incredibili. E sono dei grandi creativi.
A luglio inauguro Play, una mostra alla Reggia di Venaria. Sarà la prima mostra qui in Europa, per far capire come i maestri dei videogiochi siano fortemente influenzati dall’arte. Nella stessa sala troverete quadri di De Chirico, di Kandinsky e, di fianco, un videogioco e noterete che non ci sono differenze estetiche, perché i maestri dei videogiochi spesso si sono ispirati ai grandi maestri dell’arte e viceversa: i grandi artisti di oggi si ispirano ai videogiochi. Avremo delle foto di un fotografo inglese che si chiama Robbie Cooper, che sta spendendo tutta la sua vita fotografando le persone e a fianco, le foto degli avatar che le stesse persone utilizzano nei videogiochi.

Si vedono le somiglianze e le differenze: come una persona si percepisce. Ci sono delle foto belle e tragiche. C’è quella di un bambino affetto da una grave malattia, perennemente intubato, che quando gioca è un soldato, con una corazza fortissima. Ci sono molte di foto e di questo tipo. C’è una persona che nella vita reale è un impiegato integerrimo, sempre con la cravatta e col completo, che nel videogioco si vede come un super punk. Ci sono molte scene stordenti di questo tipo, perché oggi molti imparano e si esprimano di più nei mondi digitali che nello spazio fisico.
Abbiamo bisogno di tanti creativi
Questo è ciò che accade ai videogiochi. Sono un grande calderone, ma anche un luogo dove girano dei soldi: un mondo lavorativo. Forse ritroverò qualcuno di voi fra qualche anno, a lavorare nell’industria dei videogiochi. Perché per fare un videogioco serve qualcuno che sa programmare, con una forte componente tecnica e tecnologica, perché si utilizzano tanti linguaggi. Serve qualcuno che sa disegnare, qualcuno che fa l’animazione, qualcuno che scrive, qualcuno che immagina il mondo di gioco, chi compone le musiche. C’è chi si occupa degli aspetti più commercial, della comunicazione ed è uno dei settori che oggi è in grado di assorbire più persone.
La parte creativa è la parte più interessante
È la parte più difficile, perché non si insegna a scuola. Ci mancava tanto nella formazione. Quella mancanza ha pesato tanto.
Ogni oggetto polveroso che è nelle teche dei musei, un bassorilievo, un quadro, una statua, porta con sé un’infinita dote di storie, che possono essere attualizzabili. Perché in fondo quello che sappiamo è che, il primo libro che ci è pervenuto, che ha 5000 anni e che esiste ancora, sembra che sia del 2000, perché c’è una storia d’amore, una lotta iniziale fra due persone. E poi, queste due persone, che all’inizio si odiavano, diventano amici. E poi, quando uno dei due muore, c’è tutta una scena dell’altro che si dispera. E sullo sfondo c’è la natura.
Qualsiasi oggetto nasconde temi come l’amicizia, la vita, la morte, l’amore l’odio, che sono sempre gli stessi e che non cambieranno mai. Cambia ciò che c’è dietro o di lato, ma le storie sono sempre le stesse.
