Le parole hanno visione

Le parole hanno visione

Frate Ettore Marangi, missionario francescano a Nairobi, è il testimone asincrono del progetto 4. Usare la parola per costruire ponti.

In Africa c'è un legame familiare tra tutti. Nessun è estraneo, perché l'Africa è organizzata attraverso comunità, con questo stare in relazione. Il singolo isolato non esiste. Io sono perché noi siamo. L’Africa ci libera.

Sulle parole che costruiscono pace

Tu mi devi scusare. Sono anche un po’ filosofico. Unisco la teoria alla pratica: è la vita che mi ha colpito molto. Le parole hanno visione. Lo vado ripetendo ed è per me una provocazione costante.

Emmanuel Lévinas è un filosofo lituano che ha scritto dei libri. Li ha scritti in un campo di concentramento, da un’esperienza profonda di vita e di sofferenza. Quindi non puoi dire che questa sia una filosofia disincarnata. Dice una cosa che mi ha molto colpito, proprio riguardo le parole. Dice che il discorso in terza persona, fra me e te, su quella persona, è un discorso per lui, in parte, violento, perché è sempre un tentativo di incasellare l’altro.

La parola alla seconda persona è la mia vita nella baraccopoli.

Certo non possiamo fare almeno di usare la terza persona, ma la parola che crea pace, che lancia i ponti, che realizza comunione, perché la parola è potentissima, è una parola alla seconda persona, plurale, singolare ma alla seconda persona.

Questa è la mia vita nella baraccopoli, perché quando vado lì io non vado a insegnare, ma incontro dei volti, tendo la mano, dico qualcosa, faccio una battuta.

A noi del Sud ci insultano. Quando ci vogliono insultare dicono che siamo Africani. Io la dico questa cosa agli Africani. Qui non è un insulto: è un complimento essere Africano, perché subito stabilisce un contatto.

Io sono nella nudità della mia umanità

Che cosa mi aiuta a stabilire un contatto impedibile con queste persone: quando entro in una baraccopoli non dico sono un frate, sono un prete, sono un docente, perché la gente povera già ti mette dieci chilometri sulle nuvole e ha paura pure di parlare e di relazionarsi con te.

Allora io dico il mio nome. Il mio nome Marangi, in swahili, si legge Maranghi e sono fortunato, perché quel Maranghi è facile ricordare. Perché “ranghi” significa colore, “maranghi”, tanti colori. Se dicessi Ettore, quel nome straniero sarebbe difficile da ricordare.

Io sono nella nudità della mia umanità, io sono Maranghi tu sei Camànde, che significa lenticchia.

Là ognuno ha i suoi nomi. Ci incontriamo con gli occhi. Un sorriso, una parola, ci si conosce. Si crea una comunione immediata, unica, al di là di tutto il nostro curriculum.

E non è solamente per gli Italiani del Sud, perché io sono andato anche con il ragazzo di una dottoressa molto seria di Liverpool. Lui, con tutti questi piercing, con i capelli lunghi, era capace con due parole di creare comunità.

Per me questo è la parola

Questo è rivolgersi, l’espressione anche, non solo la parola.

Vi dico come si dice “Sì” in Runyankole, una lingua dell’Uganda. Sono molto importanti gli occhi, per cui questi dizionari delle lingue africane non si possono creare senza le figure, senza i video.

Se uno ti deve dire Sì, te lo dice con gli occhi. Capite? Ci vuole il tono degli occhi: è una sola cosa. Solamente un sì ti apre il cuore.

Le parole hanno una visione del mondo

Nella lingua Kiswahili non esiste la differenza tra uomo e donna, tra fratello e sorella. Un essere umano è un essere umano. Io sto dicendo il maschile e il femminile. Questo è importante, perché per loro non fa più differenza essere incluse nel maschile plurale.  

Se da noi facessimo un esperimento a scuola: per un giorno utilizzare il femminile plurale per i maschi e le donne, ci sarebbe una rivoluzione. Siamo abituati a un discorso di oppressione e non ce ne accorgiamo più.

Ecco: l’Africa ci libera. Non c’è nessun straniero

Ndugu: fratello, sorella. Muhalimu: maestro, maestra

Mgeni in swahili significa ospite e straniero. Non c’è nessun straniero. Non esiste uno straniero in swahili che non sia un ospite.

Le parole portano anche una visione del mondo. Costruiscono questa pace, costruiscono questa realtà.

Un’altra cosa importante delle parole dell’Africa

La giustizia nel mondo occidentale devi pagare l’avvocato, il processo, la prima istanza, la seconda istanza, la terza istanza. E tutto il personale alla fine è un fatto. Si stabilisce chi ha torto e chi ha ragione. Si accettano le conseguenze: è una giustizia molto pragmatica, che non ha un valore morale, che non coinvolge il cuore delle persone. Il giudice non se ne frega se tu piangi o no. Ci sono delle prove, si va avanti. Questa non è la tradizione africana, l’attenzione africana.

Come funziona la giustizia africana

Non si paga ed è molto immediata. Dovrei dire come funzionava, perché non esiste più, ma in alcuni casi gravissimi, come per i genocidi in Ruanda, è stata utilizzata ed è chiamata con una parola che viene dal portoghese e che ha assunto un significato dispregiativo in inglese. La parola con cui all’inizio sono stati chiamati questi tribunali africani è Palaver, che deriva da Parola: gli occidentali l’hanno vista in un senso dispregiativo: parolaio. Invece no: è molto interessante.

Succede un problema nella nostra cittadina, nella nostra scuola? Potremmo utilizzare il metodo africano.

Il tribunale africano

Innanzitutto tu vivi in una rete di relazioni.In Africa c’è un legame familiare tra tutti. Nessun è estraneo, perché l’Africa è organizzata attraverso comunità, questo stare in relazione. Il singolo isolato non esiste. È la filosofia dell’Ubuntu: una persona è le persone.

Se succede un problema fra noi due, anche molto serio, io te e le persone coinvolte, tutte quante, ci incontriamo sotto un albero. Cominci a parlare tu. Non ti interrompe nessuno, finché non finisci. Poi parlo io. Non mi interrompe nessuno, finché non finisco. Poi tu puoi ancora continuare. Insomma, noi non ci alziamo da là, finché la pace non è stata ricostruita. Non c’è primo grado, istanza, appello, chiacchere. Non c’è avvocato. Stiamo là. Dopo che noi abbiamo finito, si ascolta la comunità, quello che c’è da dire. Solo alla fine, senza alzarsi, si pronunciano gli anziani, i capifamiglia più importanti le capefamiglia. Non ci alziamo. Ci sarà anche una pena da scontare, ma non ce ne andiamo, se prima io e te non ci siamo riconciliati davanti alla comunità, perché il veleno della discordia non deve continuare a serpeggiare all’interno della comunità. È un’altra modalità di creare ponti e pace, di evitare spargimenti di sangue.  

Ti ho dato un po’ di idee su cui riflettere.

 

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